Stiamo diventando barbari? La morte sui social a caccia di click
Intervento di Guido Scorza, Componente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali
(L’Espresso, 19 novembre, 2020)
Un disabile si accascia sulla sua sedia a rotelle, cade a terra e muore.
Qualcuno attorno riprende la scena con lo smartphone e corre a pubblicare il video online.
Sembra incredibile ma succede in Italia, a Vittoria, in Sicilia, in una serata d’inverno del 2020.
È barbarie, disumanità, assenza totale di cultura del rispetto del prossimo, persino nel momento del bisogno, nei suoi ultimi istanti di vita.
È più istintivo attivare la fotocamera dello smartphone e condividere il video sui social che prestare o cercare soccorso.
Viene più naturale andare a caccia di link che provare a salvare una vita o, anche, semplicemente restare in silenzio, immobili e lasciare che altri aiutino e cerchino aiuto.
Che fine ha fatto il comune senso dell’umanità?
Come è possibile che persone in carne ed ossa non si fermino neppure un istante a pensare che, forse, i familiari della vittima avrebbero avuto almeno diritto a non scoprire l’accaduto in quel modo, dal video di uno sconosciuto su un social network.
E, ancora prima, che quella vittima è una persona e che nessuno – ma davvero nessuno – ha il diritto di rendere pubblici, probabilmente per sempre, i suoi ultimi istanti di vita.
Ma, davanti a episodi come questo, è difficile, persino, scrivere di un diritto, quello all’identità personale, ignorato, calpestato, violato perché non dovrebbero servire leggi, regole e precetti – che pure ci sono – per vietare comportamenti semplicemente disumani.
L’egoismo della socializzazione a ogni costo ha la meglio su tutto e su tutti.
La violenza di chi sceglie al posto di un’altra persona dove inizia il pubblico e finisce il privato, l’intimo, il personale diventa scelta tiranna.
L’istinto animale a condividere per poter dire agli “amici” su Facebook: “io c’ero”.
E, soprattutto, raccogliere plausi, like e follower.
Ma davvero stiamo diventando così barbari?
E noi siamo gli uomini che dovrebbero insegnare l’etica e l’umanità ai robot con i quali i nostri figli dovranno convivere?
Non ha senso chiedere leggi più severe per chi condivide addirittura la morte di un uomo via social e non ha senso neppure esigere dai gestori delle grandi piattaforme di social networking che mantengano la rete pulita da certi contenuti che non avrebbero mai dovuto arrivarci.
Se non investiamo subito in cultura dei diritti umani, del rispetto del prossimo, dell’identità personale, della privacy quella next generation alla quale sono dedicati i fondi europei che abbiamo imparato a chiamare recovery plan è condannata a vivere il canto del cigno dell’umanità.
Fonte: Garante Privacy