Big tech, Garante Privacy: “Come rifondare il diritto nella nuova realtà digitale”- Intervento di Ginevra Cerrina Feroni
23 Novembre 2020
Big tech, Garante Privacy: “Come rifondare il diritto nella nuova realtà digitale”
Di fronte allo strapotere dei big tech, occorre prendere atto della realtà. È un fatto del nostro tempo, ma a ogni fatto deve poter corrispondere un inquadramento normativo. Un’occasione per l’Europa di farsi (ri)conoscere quale regolatore attento ed esigente. Il commento di Ginevra Cerrina Feroni del Garante Privacy
Intervento di Ginevra Cerrina Feroni, Vice Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali
(AgendaDigitale, 23 novembre 2020)
Nel pensiero di Carl Schmitt il Großraum era il “grande spazio”, imprecisato nell’estensione del territorio e indefinito circa l’identità della sua popolazione. Prodotto dell’internazionalismo e della globalizzazione, il Großraum avrebbe avuto effetti nefasti, addirittura mortiferi, per lo Stato, sulle cui fondamenta, per secoli, si era venuto costruendo l’intero assetto dello Jus Publicum Europæum[1].
L’idea è replicata da Schmitt nella celebre contrapposizione fra la Terra ed il Mare: quest’ultimo, fluido, in costante movimento, incontenibile, incontrollabile, anarchico, naturale habitat del pirata, egoista fuorilegge e senza patria; la prima, al contrario, solida, stabile, ricompresa fra le nette linee dei confini nazionali, entro i quali si esprime e dai quali è limitata esternamente la sovranità. Ovvero la sede ideale dell’autorità costituita dello Stato che, sulla terra delimitata dai confini, svolge la sua missione di guida di un’intera comunità, che condivide una visione e uno stesso destino[2].
La Rete come il “grande spazio” di Schmitt
La Rete, così come ci appare oggi, non è lontana, in via ideale e nelle sue pratiche applicazioni, da quel “grande spazio” teorizzato da Schmitt: un luogo immateriale e universale, popolato da utenti immersi in un coagulo di flussi perpetui e cangianti.
Trasformazioni epocali hanno interessato la sovranità, il cui concetto westfaliano, espressosi tradizionalmente nel potere di tracciare linee nette su una carta geografica, svanisce in un Etere digitale dove lo Stato non è più l’unico attore sulla scena ma, anzi, si trova addirittura sfidato da entità altre, potentissime, sui terreni dell’economia e delle infrastrutture dove da sempre era stato esclusivo protagonista.
Come possono allora i vecchi Stati affrontare l’inedito orizzonte? Come inquadrare normativamente la nuova realtà? Come gestire e controllare, con i tradizionali strumenti, il mondo virtuale?[3]. E, soprattutto, come si “governa la nave” nel grande spazio intangibile?
Reale versus virtuale
Nella nuova dimensione spaziale la levità del software vince, anzi stravince, sui poderosi limiti imposti dell’hardware. I numeri sono impressionanti. Ad oggi, Apple vale da sola come tutto l’indice Dax 30, comprendente i migliori titoli dell’industria tedesca (automobili, chimica, energia, credito, assicurazioni, tecnologia). I Big Tech o, altrimenti detti, OTT (Over-The-Top) hanno un fatturato dalle proporzioni che pareggiano e superano il PIL di Stati sovrani[4]. Nel 2020 i ricavi annui di Amazon (280 miliardi di dollari) hanno superato quelli della Finlandia, sono 2 volte il PIL del Kuwait e 10 quello dell’Estonia; Apple (260 miliardi di dollari) ha sorpassato, fra gli altri Egitto, Rep. Ceca, Romania, Portogallo, Perù, Nuova Zelanda, Qatar, Ungheria. Ed ancora Microsoft con un fatturato di 143 miliardi di dollari e Google con uno di poco meno, 137 miliardi di dollari, corrono più veloci di Paesi come l’Ucraina, il Marocco, l’Ecuador e il Venezuela. Facebook con un fatturato di 70 miliardi di dollari si è distaccato da Paesi come Lussemburgo, Panama, Uruguay, Costa Rica, Croazia, Libano. Impallidisce ogni confronto. Eppure, pur trattandosi di Stati appartenenti al circuito di quelli sviluppati o in via di sviluppo e i cui profitti derivano da risorse strategiche tradizionali (petrolio, agricoltura, tratte commerciali consolidate e preferenziali, finanza e turismo), tutto sfuma al cospetto della New/Net/Web (come la si voglia definire) Economy esplosa con la Rivoluzione digitale[5].
La competizione è giocata, e vinta, in ragione dell’asimmetria informativa a tutto vantaggio dei Big Tech: il patrimonio informativo che essi sono in grado di concentrare attraverso le loro galassie di applicativi, servizi e prodotti digitali determina un divario incolmabile tale da eliminare qualsiasi prospettiva concorrenziale.
Un patrimonio informativo che batte per dettaglio ed aggiornamento addirittura anche quello delle amministrazioni fiscali, sanitarie e statistiche degli Stati, fino al XXI secolo uniche detentrici dei dati del pubblico. Oggi il flusso informativo ha sostituito la banca-dati, il software, sempre più sofisticato ed intelligente, è stato in grado di intercettare dinamicamente variazioni altrimenti impercettibili nelle vite, abitudini, gusti e tendenze e che, a differenza di quanto avviene nei confronti del Governo, gli utenti condividono spontaneamente. E da tutto ciò, soprattutto, è in grado di ricavare previsioni attendibili, in base ad analisi simultanee di profili realistici, potendo costruire virtualmente il modello esatto del tessuto sociale di riferimento.
Il dato sovrano
Quella per la primazia nel digitale è una sfida epocale per aggiudicarsi il predominio sui dati, cui segue la sfida, altresì epocale, di leggere il (nuovo?) mondo attraverso di essi: “cuius data, eius algorhitmus”.
Sono loro gli odierni “Leviatani”, forgiati sui profili degli utenti e da questi ultimi delegati a garantire regole e funzioni della loro socialità online. Alexis Wichowski, nel suo ultimo saggio, ha parlato apertamente degli OTT come di “Net States”[6] .
Del resto, al di là delle dimensioni economiche del loro volume di affari, gli OTT possono davvero trattare da pari coi Governi nazionali perché oligopolisti di piattaforme e sistemi. A tali oligopoli privati gli Stati sono costretti a ricorrere per la gestione, il supporto e l’operatività dei server di polizia, difesa, sanità, previdenza, fisco, sanità. Emblematico in relazione a quest’ultimo settore è ciò che sta avvenendo in tempo di pandemia con le app di contact tracing, che sarebbero state impraticabili senza la compatibilità con l’interfaccia dei maggiori sistemi operativi.
Il sopravvento del “tecnopolio”[7] per tutto ciò che concerne cybersecurity, cloud computing/storage, CDN (content delivery/distribution network) ed analytics in settori strategici, non è senza conseguenze, anche perché si tratta di settori tradizionalmente appannaggio della sovranità.
Quale natura devono riconoscere allora gli Stati a questi soggetti privati che non agiscono come comuni erogatori di asset e risorse nei riguardi dei Governi, ma quali veri e propri operatori diretti, in grado di contenere, gestire, leggere (usare?) un patrimonio conoscitivo portentoso messo a loro disposizione per necessità dagli Stati stessi.
Considerate le dimensioni di tali entità, nonché la portata delle funzioni che svolgono e la loro permeazione capillare nelle società, i Big Tech sono forse da considerarsi nuovi soggetti del diritto internazionale?
Nei fatti gli Stati debbano scendere a patti con loro, stipulando accordi e convenzioni proprio per servirsi delle loro imprescindibili, insurrogabili attività. Si disse che la Germania stesse addirittura valutando d’inviare a Mountain View (sede di Google) un proprio emissario plenipotenziario, scelto fra il Corpo Diplomatico. Questo tipo di dipendenza (infra-)strutturale ribalta i rapporti di forza classici su cui lo Stato fa leva per manifestare la propria sovranità, esercitare i poteri pubblici nei riguardi dei privati.
Definita cos’è la “forza” oggi, bisogna chiedersi chi ne detiene il monopolio legittimo. E qui sorgono i nodi cruciali.
Come può lo Stato, che da un lato è avvinto in una stretta indissolubile e vitale coi Big Tech – e così rivelando tutta la propria impotenza o inadeguatezza nella dimensione digitale – a rivendicare, dall’altro, la pretesa di veder onorate le prerogative d’imposizione fiscale, repressione del crimine, protezione dei dati, in uno spazio che sfugge irrimediabilmente ai confini fisici della giurisdizione, al principio stesso di territorialità?
E, specificatamente, come si può pretendere che l’Irlanda, scelta non a caso come sede legale da Apple, Google e Facebook assuma un’attitudine perentoria e prescrittiva, sfidando a braccio di ferro realtà economiche singolarmente vicine al valore del suo PIL e che ad esso contribuiscono in larghissima parte?
Una geo-politica della/nella Rete
Questo ordine post-territoriale vive di una nuova geopolitica delineata dalle impervie, eppur evanescenti, reti di broadcasting[8] e caratterizzata da un aggressivo colonialismo digitale più evidente nei Paesi in via di sviluppo[9], ma che coinvolge anche l’Europa.
Così, stretto nella morsa digitale dei titani statunitensi e cinesi, il Vecchio Continente rischia di divenire terra di conquista al pari dell’Africa, perduta ogni centralità nell’ambito delle nuove tecnologie.
E invece, l’Europa, culla dell’etica e del diritto, ha necessità di (ri-) trovare un nuovo ruolo, deve farsi (ri-) conoscere quale regolatore attento ed esigente ed attraverso le proprie regole, espressione di sensibilità e attenzione per i diritti degli individui, guadagnarsi l’alleanza ed il rispetto degli altri grandi mercati d’interesse, tra i quali giocano un ruolo decisivo anche alcuni Paesi dell’ Estremo Oriente fra i più coinvolti nella corsa al primato tecnologico, come il Giappone o la Corea del Sud di Samsung, che conta anch’essa 215 miliardi di dollari di fatturato.
Di fronte ai nuovi Leviatani o Net States occorre porsi in modo lucido, prendendo atto della realtà e senza irrazionali paure fuori contesto.
Il loro emergere è un fatto del nostro tempo, come lo furono per altre generazioni il primo uomo sulla Luna, o la caduta del muro di Berlino. Ma ad ogni fatto deve poter corrispondere un inquadramento normativo a tutela dell’uomo e del cittadino e a limitazione degli abusi di potere da parte di chiunque sia in grado d’imporre la propria supremazia/sovranità de facto[10].
Rifondare il diritto nel digitale
A volere ancora seguire Schmitt, la questione più seria è quella dell’Ordnung senza Ortung poiché la deterritorializzazione pone la questione della sottrazione al diritto di quelle situazioni. In pratica gli OTT sono come il pirata nel mare aperto, il che risulta abbastanza paradossale in un mondo dove tutto invece tende ad essere giuridificato.
Una metafora per evidenziare il paradosso e la loro necessaria riconduzione a un diritto (con regole e giudici distinti) potrebbe essere la Platea Magna delle città medievali, o il Foro di Roma antica. Gli OTT occupano lo spazio corrispondente di incontro, confronto, commercio: è possibile che ne siano loro i signori assoluti solo perché si presentano come soggetti ‘privati’?
Eppure, ne dettano regole di uso e di esclusione, cioè in pratica pongono loro il diritto del nuovo spazio pubblico e per di più vi esercitano la iurisdictio, con problemi serissimi rispetto ai principi di libertà e mettendo ancora di più alla corda la distinzione tradizionale tra diritto pubblico e privato.
Nell’impraticabilità dell’appello al Nòmos della terra[11], lì dove ciò che manca è proprio la terra, vanno ripensati, per una società liquida, i parametri di un nuovo diritto: forse una sorta di nuova Magna Carta, come proponeva già Vittorio Frosini[12], pioniere del diritto dell’informatica.
Il GDPR europeo è stato un passaggio fondamentale e un caposaldo di regolazione. Dando piena operatività alle clausole ed ai meccanismi di tale strumento, con cui l’Europa ha tentato di reclamare una propria egemonia, quantomeno giuridica sul digitale[13], la debolezza strutturale dei singoli Stati potrebbe in qualche modo venire supplita dal potere dell’Unione nel confronto con e fra Cina e gli Stati Uniti, tanto più necessaria oggi all’alba della disintegrazione del Privacy Shield.
Fonte: AgendaDigitale